Fabio Balocco ci racconta la povertà a Torino
Abbiamo incontrato Fabio Balocco assistendo alla presentazione del suo libro "POVERI. VOCI DELL'INDIGENZA, L'ESEMPIO DI TORINO" (Neos Ed. 2017): il racconto di un percorso, lungo un anno, per conoscere il volto della povertà in Torino, ed ascoltare le voci di chi ne è protagonista.
Ci è sembrato importante approfondire la conoscenza, perché la povertà è il campo di battaglia sul quale quotidianamente si misurano gli sforzi di chi ne è prigioniero e di chi, come i volontari di Banco Farmaceutico e delle tante realtà del terzo settore della nostra città, si prodiga per fornire strumenti di aiuto.
Il giornalista torinese Alberto Manzo ha intervistato Fabio Balocco per noi.
Che cosa spinge un avvocato savonese trapiantato a Torino, in quiescenza, come si auto-definisce nella breve biografia che fa da cappello al suo blog su Il Fatto Quotidiano, a fare un’indagine sulla povertà, a raccontare storie di sofferenza e dignità, di bisogno e, a volte, di solidarietà?
La risposta di Fabio Balocco, avvocato e scrittore, blogger e volontario, giornalista e amante della montagna, parla anch’essa di bisogno: “Scrivendo il mio libro precedente, Torino: oltre le apparenze, Arianna Editrice, il lavoro di ricerca per la mia parte del libro mi ha portato a conoscere realtà che ho voluto poi indagare più a fondo, persone e storie che ho voluto conoscere meglio. Da questo approfondimento è nato ‘Poveri. Voci dell’indigenza’, un’indagine che mi ha condotto a raccontare storie di vita, ma anche azioni di solidarietà, ma soprattutto mi ha portato a vivere giornate e momenti insieme ai poveri”.
Povertà. Voci dell’indigenza è edito da Neos edizioni: un breve compendio, circa 100 pagine, scaturito dal desiderio di conoscere meglio persone e volti di una Torino che esiste da sempre, ma che negli ultimi anni si è fatta più grande e anche più reale, nel senso che molti torinesi ne sono assai più consapevoli: “Sì, una volta la povertà era ereditaria, localizzata a determinati e identificabili strati della popolazione: immigrati, persone senza dimora e così via. Ora non più, i poveri sono tanti e di tante origini diverse, sempre più sono italiani, imprenditori, impiegati, madri divorziate o padri ed ex mariti: succede qualcosa che cambia le condizioni di vita, la persona per un po’ combatte, resiste, dà fondo ai risparmi, chiede a tutti coloro a cui può chiedere. Ma inesorabilmente scivola sul piano inclinato della povertà: perde la casa, va a dormire da qualche amico o parente, se ce l’ha, quindi in auto, poi perde anche l’auto. E finisce sulla strada”.
La sensazione peggiore è infatti che possa toccare a chiunque, in qualunque momento: “Ma certo, assolutamente. E’ una cosa che fa paura, perché basta una normale vicissitudine, come un divorzio, una malattia, per non parlare della disoccupazione, per perdere tutto e finire in un limbo da cui non si riesce a tirarsi fuori”.
E perché non si riesce? “Guardi, ci sono due considerazioni importantissime da fare: la prima è che quasi tutte queste persone non vogliono soldi, vogliono avere la possibilità di lavorare. Quindi tutte le proposte come assegni sociali e così via non vanno incontro alle reali necessità dei poveri che invece vorrebbero essere aiutati nel sentirsi attivi. Nessuno, e dico nessuno, per esempio, chiede l’elemosina. La seconda considerazione è che anche qualora potessero trovare un lavoro, non sarebbe un lavoro qualificato, con uno stipendio sufficiente per tirarsi fuori dal limbo della povertà. Quindi, sì, lavorerebbero, e questo sarebbe importante anche per loro, ma quasi certamente resterebbero sulla strada”.
Come è possibile? “Se la soglia della povertà per una persona sola è 980 euro, in lieve aumento rispetto ai 950-960 del 2015, quante di queste persone hanno obiettivamente la possibilità di trovare un lavoro che renda più di 980 euro al mese? Qualcuno sì, ma la maggior parte senza dubbio no. Quindi sono persone destinate, anche perché sole, a restare povere”.
E poi c’è la povertà sanitaria. Come incide? “Incide perché le persone non si curano, non hanno soldi per le medicine, oppure se si ammalano quando sono in povertà non ricadono nemmeno nelle reti di assistenza. E la salute precaria, a volte, è anche essa stessa causa di indigenza”.
Un altro dato che colpisce dal libro è l’imponente spiegamento di forze, intese come volontari e come risorse economiche, che il privato mette in campo, specie se confrontato con quello che possono fare le istituzioni: “Certamente il cosiddetto Secondo Welfare a Torino funziona molto bene, come d’altra parte è sempre stato, essendo Torino la città dei Santi Sociali. Il pubblico fa quel che può, in un momento in cui le risorse più che ridotte sono inesistenti. Se non ci fossero i privati, quelli che pagano come le Fondazioni ex-bancarie, e quelli che operano, come le associazioni di volontariato e le cooperative, tutto il sistema non funzionerebbe assolutamente”.
Ma il pubblico non farebbe meglio a lasciare tutto in mano al privato sociale ed esercitare soltanto la sua doverosa funzione di controllo? “Fosse per me, direi senza dubbio di sì. Il privato fa già quasi tutto, sia in termini di risorse sia in termini di attività. Potrebbe essere un fattore positivo che gli enti locali lasciassero ai privati anche quelle, poche, risorse che ancora gestiscono direttamente”.
Volontari e responsabili di enti assistenziali le hanno detto che una delle soluzioni maggiormente incisive sarebbe quella di ri-costruire una società solidale, ri-dando vita a quei legami sociali che conducono al sostegno e all’aiuto reciproco. Può davvero funzionare? “Non lo so, ho qualche difficoltà a pensare che sia possibile. Le persone che ho intervistato, in particolare gli italiani caduti in povertà, non hanno dimostrato grande desiderio di aiutare. Gli italiani spesso accusano gli immigrati che considerano in qualche modo responsabili della loro situazione. Sono molti quelli che dicono: ‘avrei diritto alla casa popolare, ma non me la danno perché sono solo, davanti in graduatoria ci sono sempre famiglie di immigrati con figli’. C’è troppo desiderio di rivalsa”.
Per ora, dunque, la speranza è sempre il volontariato? “Ora, come sempre. Torino, d’altronde, è la città dei santi sociali e ancora oggi ci sono persone che vengono qui perché trovano servizi che in altre città non ci sono, accoglienza, mense, possibilità di trovare rifugio e vestiario. Sul futuro il panorama è fosco: la povertà aumenta, chi c’è dentro non riesce a tirarsi fuori, mentre il volontariato soffre dello stesso problema della società che invecchia e non propone forze nuove. E’ un discorso che Pierluigi Dovis, direttore della Caritas diocesana, sottolinea ripercorrendo il parallelismo con i sacerdoti: se i preti hanno un’età media di 68 anni, quella dei volontari è ancora superiore, 72”.
I numeri, che nel suo libro occupano giustamente le pagine iniziali, preoccupano proprio in vista del futuro: “La povertà aumenta, lo dicono le statistiche sia dell’Istat sia dell’Osservatorio Caritas. Ma i numeri sono veritieri solo in parte: molti dei senza tetto sfuggono alle reti di assistenza e quindi non rientrano nelle statistiche. Se le cifre parlano di un 12% dei torinesi in situazione di povertà, la sensazione è che la realtà sia ancora peggiore”.
Torino, 30 ottobre 2017